New York - Fino al 2007 era considerato il paradiso in terra, "Con un
Pil di 40 mila euro per abitante, gli islandesi godono, secondo l’Onu,
di uno degli standard di vita piu’ alti al mondo, appena sotto i
norvegesi", si leggeva in un articolo di Le Figaro. "La disoccupazione
e’ inesistente, il debito minimo e l’economia cresce del 4,5% di media
l’anno".
Quando pero' le sue tre principali banche hanno fatto crack, nel 2008,
il sistema finanziario cosi' importante per l'economia dell'isola e'
imploso e la bolla di cristallo e' andata in frantumi. L'intera isola
venne travolta dal tracollo delle borse mondiali, a cui segui' la crisi
americana dei mutui subprime.
Ad aggravare la situazione, il fatto che la krona era una valuta
fluttuante, esposta all'influenza dei mercati mondiali. I tassi di
interesse erano piuttosto alti: 5-6%, contro il 2-4% dell'area euro e
degli Usa, e soprattutto lo 0-1% del Giappone. La situazione
incoraggiava l'afflusso di denaro dal mercato globale per finanziare
debito pubblico, azioni e obbligazioni islandesi. Cosi' la bolla si
gonfio' e fini' per scoppiare.
Tuttavia l'impatto dell'esplosione fu pressoche' ristretto all'isola del
nord. La Terra del ghiaccio e del fuoco non appartiene alla Cee e il
suo default improvviso causato dal fallimento degli istituti di credito
Glitnir, Kaupþing, Landsbanki, utilizzate da istituzioni internazionali
come veicoli speculativi, ha inciso quasi unicamente sul Regno Unito,
colpendo i bilanci delle banche britanniche (Barclays, LLoyds RBS), e su
qualche correntista olandese. Il fallimento del debito e’ stato
ricoperto senza troppi patemi dal governo di Londra.
Inoltre, al contrario dell’Islanda, un paese ingessato nell'area euro
non si puo’ permettere di compiere svalutazioni competitive, non puo’
lasciare galoppare il deficit e non puo’ adottare un piano di rientro
dai debiti decidendo a suo piacimento la lunghezza delle scadenze.
Cosa possono allora imparare dall'episodio i paesi della periferia
dell'Eurozona che rischiano di fare la stessa fine? Quello che Grecia,
Italia e gli altri paesi indebitati del blocco a 17 potrebbero fare e'
intraprendere alcune delle misure drastiche prese nell'isola, secondo
quanto riferito a Business Insider da un gestore di investimenti
islandese.
Il banchiere ha detto che Atene dovrebbe lasciare che la crisi faccia il
suo corso e lasciare le banche al loro destino. Tradotto: al default,
proprio come ha fatto l'Islanda. "Il maggiore problema e' che tutti
pensano di poter ingigantire il debito del governo e rifinanziarlo in un
secondo momento, allungando le scadenze". Ma una soluzione di questo
tipo e' destinata a non funzionare.
Piu' ritardi il momento del dolore e piu' peggiori la situazione: "E'
come la ceretta, meglio toglierla subito". Certamente, non sara' un
compito facile. Fara' molto male per 5-10 anni, ma cercare di rimandare
l'appuntamento, non fara' che ampliare i problemi. L'Islanda e' stata in
grado di uscirne e incominciare a ricostruire la sua economia, in un
modo piu' equilibrato, riducendo il peso della finanza nell'intero
sistema.
Resta il fatto, tuttavia, che il crack di uno stato membro della
comunita’ europea e’ un evento che non si puo’ mettere sullo stesso
piano di quanto avvenuto a Reykjavik, che e' un paese piccolo, composto
da una popolazione di 318 mila abitanti, meno della citta' di Bologna.
Un default della Grecia comporterebbe invece il collasso di almeno tre
grandi istituti francesi, due grandi banche tedesche e quasi tutte le
grandi banche inglesi. L’uscita di Atene dall’euro con la reintroduzione
della dracma comporterebbe una quotazione valutaria che sarebbe
considerata al pari dell’Hryvnia dell’Ucraina o il llari della Georgia
ex URSS, con l’importazione di una inflazione enorme, vista la mancanza di fonti energetiche e di un sistema industriale in grado di controbilanciare le importazioni.
Quello da prendere da esempio del caso islandese e’ invece il
comportamento tenuto dal suo popolo. Gli islandesi, vittime innocenti
del crack, si sono ribellati, tanto che si parla di una vera e propria
rivoluzione. Non hanno accettato di pagare per la crisi, rifiutandosi di
sottostare ai diktat del sistema finanziario globale. La stessa
"macchina infernale" che sta soffocando la Grecia e gli altri paesi
della periferia dell’area euro.
Nel marzo del 2010 si tenne un referendum in cui il 93% degli islandesi si e' opposto alla legge di rimborso.
Una nuova proposta di rimborso e' stata nuovamente bocciata mediante
referendum nel marzo dell'anno successivo. In altre parole, il debito
estero e' stato letteralmente "cancellato" anziche' pagato, in quanto
ritenuto la causa di azioni criminose di banchieri e membri del governo e
non del popolo. Per la classe politica italiana e i grandi media questa
"mini rivoluzione", un raro caso di giustizia sociale, non e’ mai
esistita. E' passata inosservata.
Il sistema finanziario islandese e’ stato lasciato fallire e ora l’isola
sta cercando di rinascere, con il governo che sta persino lavorando a
una nuova costituzione, proprio come succede alla fine di una guerra
strenuante.
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